Antonio Fogazzaro
Abbazia di Praglia
Teolo
“Oh, ma questo è un incanto, è un paradiso!”. Era Carlino Dessalle che si estasiava così sull’entrata del cortile, alle spalle di Piero. “Caro Maironi”, diss’egli, “senta quest’idea. Praglia è il sogno di un vecchione vergine e santo che ha cenato di olive e di melagrani e si è addormentato al suono di un preludio di Bach, non però come vi addormentereste voi. Oserei anche dire che ha bevuto acqua sterilizzata”. “Lei non ha veduto ancora niente”, fece Maironi. […] “Capite, basta uno sguardo. La torre merlata e quella divina loggetta che vi si porge incontro lassù – già voi nemmanco l’avete vista! – come un saluto del genio dell’Abbazia, il quale non ha potuto partire con i frati; e quella bruna chiesa quattrocentesca, così larga e solida nella sua eleganza, assisa in alto sopra quella compagine quadrata di grandi pietre coricate e morte come volumi di teologi, di dottori, di Padri, mi han fatto battere il cuore. […] E, capite, la massiccità toscana di questo zoccolo e di questa chiesa, così legata con la toscanità di questo colle che di barbaro ci ha solamente la calotta di selva selvaggia sopra gli oliveti, ma è tanto composto nel suo movimento, tanto schivo di ogni attitudine maleducata, tanto serio, vero? E fatto per la meditazione, con quelle piccole processioni fraticellesche di cipressetti, molto bornés ma semplici e pii, tale insomma, questo colle, che si vede nel suo corpo alto e grosso una devota umiltà verso la chiesa che gli sta sotto e che pure grandeggia e lo signoreggia, tutto ciò mi ha preso, diremo eh, sorella mia, i polmoni, perché quelli spero di averli, e ho buttato fuori tutto il mio fiato in una fila di oh! oh! tanto che ne son rimasto senza per cinque minuti”. “Pare che ti sia ritornato” disse Jeanne. “Oh sì, è ritornato. E qui e qui, questo cortiletto divino, questo casto pensamento trasmutato in sogno! Guardate la grazia infinita dei fregi minuti, vedete le cornici di terracotta, gli archettini trilobati, il melarancio simbolico, e quelle conchigliette, un antico rosario allineato. Giusto, forse non erano melagrani, erano melaranci che il vecchione santo ha preso a cena. E la grazia del colossale! Guardatemi questa torre che regna e non opprime. Lasciamo che si tiri su la nostra gratitudine verso un’eccelsa fonte di tutte le forme belle”. […] Intanto Maironi contemplava non il doppio giro delle svelte arcate sotto le sopracciglia graziose delle cornici di terra cotta, non la torre ascendente in atto di mediatrice fra il chiostro e il cielo, ma il disordine vivo e la foga, nel cortile, delle erbe ubriache di primavera. […] Sullo scalone del Settecento che sale ai grandi androni fiancheggiati di celle, mentre il custode indicava le lapidi commemoranti visite imperiali austriache, Francesco I, Ferdinando I, e Dessalle gemeva come se lapidi e scalone gli premessero sullo stomaco, sua sorella, prese da capo il braccio di Piero, gli sussurrò affannosamente: “Non mi abbandoni”. […] Preso dal suo dramma, il giovane si era scordato di essere a Praglia. Riconobbe a un tratto il chiaror largo, il quadrato di arcate, il puteale nel mezzo, il tabernacoletto sull’angolo del refettorio. Trasalì, si arrestò. Era il posto della commozione inesplicabile, della presenza misteriosa, che due volte, a intervalli di anni, aveva sentito. […] Parve allora che gli occhi si aprissero alle cose. Lasciò Piero, prese amorosamente il braccio di suo fratello, volle vedere lo schizzo della porta, suggerì uno schizzo del colle imminente alla loggia ma da un punto di vista migliore, lo andò cercando per il cortile, si fece spiegare il motto del puteale “aestus, sorde, sitim pulso”, cadde in estasi davanti al magnifico lavabo sull’entrata del refettorio, trasse Carlino nella loggetta sporgente sugli orti, gli mostrò il mare verdognolo della campagna distesa fino alle torri e alle cupole di una lontana città, umili e nere sull’orizzonte; e di là, solo di là, gittò a Maironi un’occhiata dolcissima.
da Piccolo Mondo Moderno, 1901