George Byron

Tomba di Francesco Petrarca
Arquà Petrarca

XXIX
Fill’d with the face of heaven, which, from afar,
Comes down upon the waters; all its hues,
From the rich sunset to the rising star,
Their magical variety diffuse:
And now they change; a paler shadow strews
Its mantle o’er the mountains; parting day
Dies like the dolphin, whom each pang imbues
With a new colour as it gasps away,
The last still loveliest, till — ‘tis gone — and all is gray.

XXX
There is a tomb in Arqua; — rear’d in air,
Pillar’d in their sarcophagus, repose
The bones of Laura’s lover; here repair
Many familiar with his well-sung woes,
The pilgrims of his genius. He arose
To raise a language, and his land reclaim
From the dull yoke of her barbaric foes:
Watering the tree which bears his lady’s name
With his melodious tears, he gave himself to fame.

XXXI
They keep his dust in Arqua, where he died;
The mountain-village where his latter days
Went down the vale of years; and ‘tis their pride —
An honest pride — and let it be their praise,
To offer to the passing stranger’s gaze
His mansion and his sepulchre; both plain
And venerably simple, such as raise
A feeling more accordant with his strain
Than if a pyramid form’d his monumental fane.

XXXII
And the soft quiet hamlet where he dwelt
Is one of that complexion which seems made
For those who their mortality have felt,
And sought a refuge from their hopes decay’d
In the deep umbrage of a green hill’s shade,
Which shows a distant prospect far away
Of busy cities, now in vain display’d
For they can lure no further; and the ray
Of a bright sun can make sufficient holiday,

XXXIII
Developing the mountains, leaves and flowers,
And shining in the brawling brook, where-by,
Clear as its current, glide the sauntering hours
With a calm languor, which, though to the eye
Idlesse it seem, hath its morality.
If from society we learn to live,
‘Tis solitude should teach us how to die;
It hath no flatterers; vanity can give
No hollow aid; alone — man with his God must strive:

XXXIV
Or, it may be, with demons, who impair
The strength of better thoughts, and seek their prey
In melancholy bosoms, such as were
Of moody texture from their earliest day,
And loved to dwell in darkness and dismay,
Deeming themselves predestined to a doom
Which is not of the pangs that pass away;
Making the sun like blood, the earth a tomb,
The tomb a hell, and hell itself a murkier gloom.

… Tutti i colori/ dal ricco tramonto alla stella che si alza, diffondono la loro magica varietà:/ e adesso cambiano; un’ombra più pallida getta/ il suo mantello sopra le montagne; il giorno che fugge/ muore come il delfino, che ad ogni convulsione si tinge/ di un colore nuovo mentre rantola,/ ognuno sempre più bello,/ fino a che – è finita – e tutto diviene grigio.//
C’è una tomba ad Arquà; sollevate verso l’alto, su colonne, riposano/ le ossa dell’amante di Laura:/ qui accorrono / molti amici dei suoi ben intonati lamenti,/ come pellegrini che onorano il suo genio. Egli sorse / per innalzare una lingua, e per liberare una patria / dal giogo ottuso dei suoi nemici barbari:/ innaffiando l’albero che portava il nome della sua signora / con le sue melodiche lacrime egli si consegnò alla fama. //
Le sue ceneri sono conservate ad Arquà, dove morì; / il villaggio montano dove i suoi ultimi giorni / discesero fino in fondo la valle degli anni; e questo è il loro vanto – / un legittimo orgoglio – che essi ne gioiscano / offrendo allo sguardo dello straniero di passaggio / la sua casa e il suo sepolcro; entrambi umili / ma venerabilmente semplici, tali da suscitare / un sentimento più conforme al suo canto / che se una piramide costituisse il suo monumentale santuario.//
E il gentile e quieto villaggio dove egli visse / ha l’aspetto che sembra appropriato / per quelli che hanno sentito la loro mortalità / e hanno cercato un rifugio dalle loro speranze decadute / nelle ombre profonde e cupe di una verde collina / che svela una prospettiva molto lontana / di città indaffarate / e invano offerte allo sguardo,/ perché esse ormai non possono più attrarre; e il raggio / di un sole raggiante può rappresentare una festa sufficiente;//
rivelando i monti, le foglie, e i fiori,/ e brillando sul mormorante ruscello, dove / chiare come la sua corrente, scivolano le ore indolenti/ con un calmo languore, che, benché all’apparenza/ sembri ozio, ha la sua moralità./ Se impariamo a vivere dalla società,/ questa solitudine ci insegnerà come morire;/ essa non ha adulatori; la vanità non può dare nessun vano aiuto;/ l’uomo è solo – deve lottare con il suo Dio://
o, forse, con demoni, che compromettono / la forza dei nostri pensieri migliori,/ e cercano le loro prede tra i cuori malinconici,/ quelli che furono di carattere lunatico fin dai loro primi giorni,/ e amano vivere nell’oscurità e nella costernazione.

da Childe Harold’s Pilgrimage, IV Canto, 1818